Francesco Postorino - L'altra città

l’altra città di Francesco Postorino

Lettori, bentornati! O meglio, bentornata a me, che finalmente ho vinto la mia battaglia contro la connessione!
Ospite di oggi è Francesco Postorino, che mi introduce nello spinoso campo della filosofia. Una conversazione che ha messo alla prova me e sicuramente sarà una bella sfida anche per voi!

Antipasto
Caro Francesco, grazie per aver accettato l’invito a questo pranzo virtuale. Intervistarti mi è sembrato quasi doveroso dopo aver letto un tuo articolo per L’Espresso, Quale eterno ritorno?.
Tu parli di ‘gusto della libertà interiore’, del bisogno di riscoprire qualcosa al di là del ‘qui e ora’, motto della società contemporanea. Oggi ci sono sempre più libri ‘del momento’ e pochi che hanno il sapore di ‘pilastro’. Quindi, il gioco che ti propongo per rompere il ghiaccio è facile: quali requisiti deve avere secondo te un testo per riportare il dominio del gusto?

Un’opera non può essere macchiata dal «si dice» o dal «si fa», di cui parlava con tono profetico Heidegger. Non può inseguire i salotti grigi del successo, l’inganno del premio, la voce della produttività, le statistiche, il morboso apparire, i criteri di valutazione, la presunta empatia delle giurie o quello che il poeta francese del Nouveau Roman, Michel Butor, definiva «l’immenso rumore» del niente. L’autore, quindi, deve parlare a se stesso nel continuo approfondimento dell’arte. Deve ascoltare il suono peculiare della sua musica e farsi cullare dalle sfumature che non mentono. Adesso è difficile.

La società odia la «scintilla di rivelazione» predicata dal professor Keating in Dead Poets Society, e distrugge i luoghi della gratuità, l’essenza, lo stupore nel ritrovarsi unici entro le dinamiche della semplicità. Un buon libro, indipendentemente dal contenuto e dal genere, riflette il significato interiore ed esperienziale delle anime belle, quelle che alla chiacchiera preferiranno sempre l’odore della fragilità, al fastidio del mercato i motivi della sobrietà.

Magari sono narrazioni che venderanno poco o riceveranno poche statuette. Pensa se Manzoni avesse sfiorato i giochi estetizzanti del nulla cercando l’oscenità oggi in voga. Tutti noi avremmo perso qualcosa. Avremmo perso quel briciolo di valore che sfugge al tempo e che solo gli immortali sanno restituire al lettore di ogni epoca. «La madre di Cecilia», infatti, è un grido silenzioso che va disegnato di notte, a stretto contatto con le tue stelle, dentro un mare di pioggia che bagna il tuo inconfondibile verso.

Primo
O Capitano, mio Capitano, suggeriresti quindi di scrivere nei boschi dopo aver succhiato il midollo alla vita? Citazioni a parte, mi sento in dovere di premettere che oggi come oggi, il prodotto libro è in una posizione delicata. Tu parli di liberarsi dalla zavorra, di tutto ciò che è ‘commerciale’, ‘commercializzabile’, di un corredo di luoghi comuni che spesso fanno dire agli editori ‘si vende, si pubblica’.

Qualche settimana fa ho raccolto l’esperienza di Moreno Casciello, direttore editoriale di Milena Edizioni, e lui è uno di quegli editori che suggeriscono agli autori di smettere di scrivere. Vi ho accostato perché penso abbiate entrambi il pensiero di un’editoria ‘pura’, laddove la penna e l’ingegno esulano dalle regole di mercato. Nella tua esperienza di scrittore, com’è stato l’ingresso nel mondo editoriale?

Premetto che io appartengo all’universo della saggistica. Ma vale quanto detto prima. Qui, in particolar modo, vi è il rischio di seguire la «moda scientifica», cioè riportare con andamento da cronaca quel che la dottrina disse prima di te. Si richiede una penna ‘descrittiva’, rigorosa in chiave matematica, precisa come un computer. Di recente, la mia amica e scrittrice Elvira Seminara, in un articolo importante sull’Espresso metteva bene in luce la deriva del cosiddetto «linguaggio appropriato» invocato dai partigiani del sistema.

Anch’io mi sento dire a volte che alcune mie parole non sono tecnicamente impeccabili, o che il mio stile è troppo libero. Queste accuse provengono da chi lavora al servizio del protocollo e si impegna a demolire l’inedito. Io sono di tutt’altro avviso. Ho il vizio della curiosità. Quasi la sottile perversione di scovare la bellezza di quel sentire legato ad un’atmosfera distante dai numeri, dal giudizio con la penna rossa, dal bieco conformismo e dal broglio del mercante. Un sentire che non può essere intrappolato dalle regole del superfluo.

Novità, però, non significa «nuovismo», espulsione del passato, sciocco esibizionismo, oppure esclamazione eclatante del tipo « purché se ne parli!»; ma, appunto, si tratta di un qualcosa di tuo, di un’emozione che urla prepotentemente dentro di te e richiede forma. Sarebbe un grave reato mettere il veto al sentire.

Secondo
Specialmente in saggistica, questo è un po’ vero.
Si cerca l’innovazione nei maestri del passato, tralasciando forse un po’ quelli che potrebbero essere i ‘condottieri’ contemporanei di un determinato pensiero.
Quindi, si cerca di sentire in modo nuovo con orecchie anziane? 

Nel mio ultimo libro (Croce e l’ansia di un’altra città), al di là del contesto storico e teoretico cui faccio riferimento, ho provato ad avanzare questa insolita espressione: «ansia di un’altra città». Sono sempre più dell’idea che, nel grande teatro della globalizzazione, irrompe una calma passiva, una nefasta serenità che distrugge i semi dell’altrove. Oggi, infatti, è scomparsa l’ansia di un’altra città, quell’ansia di un sovrasensibile che possa coltivare l’I have a dream recitato con fervida passione da un uomo che esattamente cinquant’anni fa veniva assassinato.

Mi riferisco al vecchissimo sogno dell’umanità, il sogno che tutti noi conoscevamo fin troppo bene da bambini. La depressione postmoderna sperimentata dai raffinati paladini della «morte di dio» vieta i racconti del cielo, la dimensione dell’Essere, i valori dell’89, il segreto del Vangelo, l’eternità sofferta da Socrate, gli imperativi formulati da Kant, il «volto» inseguito da Lévinas.

Vieta l’«altra città», un luogo imparziale che ospita il significato della persuasione, dove tutti sono liberi di pronunciare una parola imprevedibile che possa scardinare il male. In questo spazio, collocato fuori dal tempo e dalle ore buie della contingenza, l’arma infaticabile della buona fede è la linfa che colora le pareti. Poi tocca a me e a te trattenere l’alba, e subito dopo spostarci per far entrare il «lui» con il suo destino.

Contorno
Io il tuo libro ho iniziato a leggerlo, adesso vediamo se ho capito. La globalizzazione appiattisce la meraviglia nei confronti del nuovo. A questo punto nulla più è ‘nuovo’, in gran parte della filosofia contemporanea, un po’ troppo radicata nel presente. E ci impedisce di ritrovare la meraviglia nei confronti dello straordinario, sia questo un Dio ipotetico o semplicemente il sogno. Non vi è possibilità di andare oltre lo schema predefinito delle cose.

A questo scenario un po’ ‘scialbo’ ci siamo arrivati noi (come civiltà), probabilmente focalizzandoci troppo sull’oggettivare. L’ altra città diventa quindi un fortino in cui ‘liberare’ l’espressione? Ma cosa intendi per altra città? Un nuovo modo di fare cultura?

Credo sia impossibile definirla. Non saprei da dove iniziare. La immagino, però, come un sentiero che sfugge ad ogni pretesa. Un’apertura parallela, un’azione incontentabile, la replica provvisoria al gelido che ci pervade. Non è solo un nuovo modo di fare cultura, ma è un modo più impegnativo di rivisitare il nostro io, l’io degli altri, di chiunque altro. Il ‘chiunque’ può rimanere il passante che sbatte contro il nostro vestito durante le passeggiate domenicali, oppure la più forte opportunità di un incontro ambientato nell’eterno; può continuare a chiamarsi «lui» o «loro» e dunque sedere sui gradini dell’indifferenza, oppure può diventare il «tu», un soggetto di diritto che piange, ride e annuncia un potenziale da me accolto.

L’«altra città», in ogni caso, non è l’irraggiungibile cielo platonico, non allude insomma a dualismi ingessati. Si tratta di tensione dinamica. Di un implicito che si realizza quando accendiamo i propositi dell’alterità. L’altra città è la nuova città che sostituisce, anche per un istante, le storture del presente, la luce della verità che annienta la stanchezza, la gioia di un altro tempo, il confuso comandamento dei buoni, il nobile messaggio che ci consegna il vento delle attese.

Non è un astratto o il virtuale, ma l’istinto di voler premiare il bene a prescindere, di aiutare in ogni sfera, di intensificare la reciprocità, di respingere la fredda dialettica fra il giusto e l’ingiusto non nel senso voluto da Nietzsche, ma ricreando ad oltranza e con pathos la vittoria del primo. Significa voler fare sacrifici insieme, applicare i principi custoditi nella nostra Costituzione, sentirsi una comunità in fieri. L’io deve staccarsi dalla sua storia finita, scendere nella profondità del nuovo tu e inventare un’altra storia nello spazio terzo ed elusivo che non ammette asimmetrie.

Non è l’incubo del giacobinismo, una falsa città del sole o una specie di pigro collettivismo; mi sto riferendo, invece, a un nuovo modo di sentire, un laico presupposto, la decisione di riscrivere i fondamentali per poi proseguire nel qui con uno spirito inedito. Se pensi che tutto questo sia utopia, ti rispondo di Sì: è utopia! Abbiamo bisogno di un pezzetto di utopia. Il secolo breve – quello del Novecento – accompagna una cultura banale, unica, conformista, dominante, bianca, proprietaria, vecchia e maschia. Mi viene in mente Walter Benjamin e il suo desiderio di dipingere la storia dei vinti, quella che non è mai iniziata.

Dolce
E tuttavia, a volte i vinti mettono in atto grandissime rivincite! 
Però penso di aver capito quello che dici: c’è bisogno di utopia perché il pensare di poter realizzare l’impossibile è proprio il carburante che mette in moto i grandi progetti e le grandi cose. Quelle diverse da tutte le altre, un pluralismo di altre città, se ognuno di noi fosse strettamente individualista. Ma visto che i sogni migliori sono collettivi, l’altra città è una.

Secondo me siamo ancora in tempo a crearla, tu che dici? 
Certo.
(Laddove ‘certo’ è stata l’unica risposta da parte di Francesco.)

Digestivo
Confesso che la risposta del dolce mi ha lasciata basita. Forse ho preso l’autore per sfinimento, forse semplicemente è stato un discorso ricco e complesso. O forse a volte, più concisa è la risposta e più direttamente passa il concetto.
Francesco dice che è stato un pasto piacevole, io sono contenta!

 

Editor freelance, lettrice compulsiva, mangiona impenitente. Tra un refuso e una briciola recensisco libri e lavoro con gli autori accanto alle loro storie.

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