portland, simone giusti

Portland, il sapore del West

Portland, la città dei dannati (click) è uno di quei libri che mi ha riportato all’infanzia.
Non so il vostro, ma il mio è un papà targato ’43 con la passione per i film di Eastwood e Wayne e una quantità di Tex che supera i metri quadrati disponibili. Sono cresciuta con l’idea che ‘figlio d’un cane’ fosse davvero una gran parolaccia, e che i momenti di tensione dovessero essere accompagnati più o meno da questa musica qui. Questo perché camera mia è sempre stata un po’ più vicina al salotto e al surround di quanto realmente volessi.

Essendo convinta che tutto abbia un proprio tempo, anche gli stravolgimenti e i ritardi in scaletta su #readEat, mi sono ritrovata a salvare Portland negli scatoloni superstiti qui a Napoli, interpretando il tutto come un ben ingegnato piano del destino. Così, con la colonna sonora di Per qualche dollaro in più in sottofondo, posso iniziare a parlare di questo libro dal sapore intraprendente, che tra un colpo di pistola e un’imprecazione trova nell’oggi tanti spunti di pensiero.

Portland, di Simone Giusti ed edito da Bookabook, inizia con una carneficina: uno straniero entra nel saloon. Fa la conta dei propri avversari, li elimina tutti fino ad arrivare al padrone del locale. Uccide anche lui. Ha rabbia dentro di sé, lo straniero, non uccide per diletto ma perché ha un conto in sospeso. Quello che lo straniero non sa è che il suo gesto e la sua vendetta incroceranno le strade di July, Jimmie, Samuel e Vivien.

Julie è una prostituta, ma non è sempre stato così. Lei è una donna intraprendente, voleva soltanto essere libera. Per questo, lì nel saloon era legata a una catena, fino all’arrivo dello straniero. Jimmie è un cliente del saloon, perso di lei. In Julie, Jimmie scoprirà un coraggio che non sapeva di avere.
Samuel e Vivien sono una coppia. Sono appena arrivati in città, e subito si ritrovano a fare i conti con Portland, un posto dove ti lasciano a terra quasi morto soltanto perché la tua donna ha i capelli rossi, ciò ha valore agli occhi di qualcuno.

Le strade di questi personaggi si intrecciano un po’ per altruismo e un po’ per convenienza, ma la vera protagonista della storia è lei: Portland. Terra di nessuno, inferno in superficie e sussurri nel sottosuolo. Portland è approdo dell’egoismo, dove l’ordine interno è garantito da una casta di corrotti e scagnozzi che fanno rispettare un’unica legge: la loro.

Tuttavia, in questo vero e proprio ginepraio di personaggi discutibili, spinti dalla necessità, l’azione è innescata da un unico, semplice gesto: una richiesta d’aiuto. Lo straniero vede Samuel per terra, e qualcosa scatta. La sua missione non è più una semplice vendetta, ma diventa atto di giustizia.

Mi piace come, in Portland, Simone Giusti accompagna il lettore dall’ io al ‘noi’. Come faccia di quattro persone, tutte un po’ straniere a loro stesse, un gruppo in grado di funzionare e smuovere sentimenti anche lì dove si pensava non ce ne fossero più. A Portland il codice d’onore personale riesce a diventare condiviso sparatoria dopo sparatoria. Perché siamo in un western, ricordatelo, la gente deve sparare, la polvere si deve mangiare.

E a proposito di mangiare, il languorino questo libro me l’ha messo.
Ho cercato di rendere vivo il senso del ritmo, l’avvenimento veloce e la mano del pistolero. Vedete, a volte è difficile rendere bene i sentimenti, quando bisogna gestire più punti di vista e più atti, all’interno della narrazione. Un po’ come cuocere insieme verdure diverse e volere che siano tutte buone, saporite e croccanti allo stesso tempo. Qualcosa che si presenti sulla lingua senza troppi preamboli, come un colpo di Winchester. Insomma, come quando vuoi il cibo più veloce del West.

Ma cosa?

Forse c’è: è una di quelle sere in cui vuoi sperimentare e ne esce fuori del cibo insolito, perché il piatto di fagioli fa molto Lo chiamavano Trinità ma non Portland.
Ho cercato di dare alla teglia ritmo e qualche sapore deciso mescolando le consistenze femminili e quelle meno gentili del romanzo a bastoncini di zucchine e patate, immersi in qualcosa di delicato, l’olio di riso. No, non friggete. Impanate, come i perdenti nella sabbia in Mezzogiorno di fuoco. Impanate nel pan grattato mescolato al sale rosso, curry thailandese e pepe di Cayenna. E poi infornate.

Usciranno fuori queste croccanti, speziate e saporite verdure, fumanti come la canna di una pistola. Il sapore è una stilettata, c’è la sfumatura del curry e subito dopo quella del pepe, che come un western porta il palato da una scena all’altra passando per un colpo di pistola. Bastoncini un po’ senza giustizia, come Portland, perché gli ingredienti non sono distribuiti in parti uguali, reagiscono diversamente da una verdura all’altra.

Quella, la giustizia, possiamo farla noi, mangiando tutto senza fare distinzioni.

 

il forno
Proprio così, è tornato anche lui. Fortunatamente l’autunno è arrivato, torna il tempo in cui il forno non è più un nemico.
Da brava editor mangiona quale sono, mi piace pensare che il forno sia un po’ la metafora di ogni buona storia. Autori, non abbiate fretta: date al vostro manoscritto il tempo di crescere, di arrivare a cottura. E se siete indecisi, munitevi di qualche assaggiatore di buona forchetta, loro non mentiranno mai.

 

Recensione del libro Portland, la città dei dannati di Simone Giusti, edito da Bookabook

 

Editor freelance, lettrice compulsiva, mangiona impenitente. Tra un refuso e una briciola recensisco libri e lavoro con gli autori accanto alle loro storie.

Rispondi